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MARCOROSSI
artecontemporanea

 

Intervista a Sergi Barnils, prima puntata

27  Aprile 2021   –   Tempo di lettura: 1 min   –   Sergi Barnils

L’artista catalano Sergi Barnils si racconta in una lunga intervista che pubblicheremo a puntate sul nostro sito.

Durante una recente visita nello studio di Sant Cugat abbiamo parlato a lungo con Sergi Barnils del suo lavoro

Alla nostra richiesta di intervista Sergi Barnils ha risposto con questo aneddoto: “Io amo le interviste di Mirò, quando il pittore catalano veniva intervistato non diceva nulla, il suo motto era – il mio lavoro parla per me, perché devo parlare io?” L’artista infatti non deve spiegare le sue opere, le opere devono parlare da sole. Quello che l’artista può fare è parlare di sé e di quali sono state le esperienze che lo hanno portato a concepire un’opera.”  

La nostra richiesta è stata quindi: non spiegarci i tuoi lavori, spiegaci Sergi Barnils

 

Per parlare di me mi sembra utile contestualizzare dicendo che vengo dal figurativo. Agli inizi uscivo in campagna, dipingevo i modelli organici, e la mia intenzione era quella di cercare di riprodurre la realtà con il massimo virtuosismo possibile. Poi mi sono allontanato da questa idea che non mi dava più soddisfazione: un giorno ho cominciato a guardare il cielo davanti al paesaggio, e le stelle apparivano un po’ come quelle opere di Constable, dove tutto è nuvole, blu turchese e trame. Nient’altro, solo quello che si chiama il secondo cielo, il cielo che ci è ancora visibile – perché il terzo è già invisibile. Da quel momento c’è stato un cambiamento nella mia pittura e ho cominciato ad interessarmi non alla realtà tangibile, visibile, ma al mondo invisibile.

Sergi Barnils pensa che Antoine de Saint Exupery, quando diceva che ciò che è invisibile ai nostri occhi è ciò che conta davvero, avesse assolutamente ragione

La mia visione ha iniziato a scalare verso un’altra dimensione, ho iniziato a lavorare con il mondo dei simboli. L’oggetto, il modello, come diceva Cézanne, il motivo, non mi stimolava più, mi interessava invece l’invisibile. Tutte le cose che vedevo le traducevo in simboli, per esempio il triangolo, il cerchio, il rettangolo, il quadrato, una natura basata su geometrie che sono lontane dall’essere ciò che vediamo nella realtà, e così via. Da lì in avanti anche ciò che sentivo dentro di mè è cambiato molto, perché internamente avevo il caos. Ero, come si dice dalle mie parti, “carne da psichiatra”.

Di che periodo stai parlando?

Quando ho avuto questa esperienza è stato più o meno a partire dall’85, verso fine degli anni ‘80. Allo stesso tempo ho anche cominciato a leggere molto gli scrittori mistici spagnoli. Ad esempio Santa Teresa d’Avila, che ha scritto un libro intitolato Il castello interiore, basato sul parallelismo dell’anima come abitazione interiore, un viaggio spirituale, il cui scopo è la trascendenza, il raggiungimento della luce, l’unione d’amore con Dio. Questo tema ha iniziato a interessarmi molto e dai mistici spagnoli sono passato a leggere l’intera Bibbia, da cima a fondo, dalla Genesi all’Apocalisse.

C’erano molte cose che non capivo, racconta Sergi Barnils, ma continuavo a leggere

Piano piano ho visto che tutti i simboli che avevo utilizzato nelle mie opere in qualche modo acquisivano un significato. Lavoravo molto sulle geometrie – nell’arte primitiva la geometria è fondamentale – e ad esempio, il triangolo, che avevo già usato molto, mi è apparso come la visione della divinità, una dimensione tridimensionale, che poi viene tradotta come Padre, Figlio e Spirito Santo nella filosofia cristiana. Tutti i simboli che compaiono nelle opere, per me avevano un significato: il cerchio era l’eternità, che non ha né inizio né fine, poiché non sai né dove inizia né dove finisce, è sempre continuo, come anche le sfere.

 

Biografia Sergi Barnils